La fragilità delle relazioni
di Marco Cazzaniga
C’è un principio a cui vorrei attenermi nel rapportarmi con gli altri: in nome del fatto che siamo tutti esseri umani desiderosi di vivere al meglio e bisognosi gli uni degli altri, si dovrebbe avere un rapporto che non sia di rifiuto ma di accettazione. E’ quello che succede con la maggior parte delle persone che incontro (per caso o per necessità di vita), e con le quali non trovo motivo per andare più a fondo nella conoscenza e nello scambio. E’ un rapporto piuttosto formale: educato, rispettoso, teso anche a fare stare bene gli altri, ma proprio di chi sta sulle sue. Comunque metto in campo modalità che sono in linea con le mie esigenze e convincimenti in ordine al valore e dignità che attribuisco ad ogni essere umano. Sono rapporti poco impegnativi, che è possibile instaurare con tanti, fatta eccezione per quei casi di palese aggressività, prepotenza e arroganza, di fronte ai quali, potendo scegliere, sto alla larga.
Comunque, in genere, il rispetto e l’attenzione che cerco di avere con le persone non implica da parte mia un andare a cercarle.
Anzi, a volte gli altri mi danno fastidio e preferirei stare solo.
Fatte queste premesse, ritengo che il termine relazione vada usato per indicare un modo di stare con gli altri un po’ più coinvolgente di quello descritto sopra, che però non avviene con tutti allo stesso modo, ma che presenta diversi gradi di coinvolgimento. Queste relazioni hanno comunque una caratteristica che le accomuna, sono per lo più scelte liberamente.
Un primo grado di coinvolgimento è con le persone con le quali condivido alcune motivazioni e obiettivi, con anche occasioni per conoscersi, confrontarsi e scambiare (magari facendo parte di un gruppo).
E’ stato il caso, in tempi più o meno recenti, del mio impegno nella politica istituzionale: ARIPO, Iniziativa Democratica, CI 6. E’ il caso, attuale, della mia partecipazione a EMERGENCY, anche se meno attiva di un tempo.
In questi casi, le relazioni sono condizionate dall’appartenenza al gruppo e dalla permanenza delle motivazioni e obiettivi iniziali. Se il gruppo si scioglie o se vengono meno motivazioni e obiettivi, è molto facile che anche le relazioni si spengano (sono quelle che chiamiamo relazioni strumentali), a meno che tra motivazioni e obiettivi ci sia proprio quello del volere creare e mantenere le relazioni (quelle che chiamiamo relazioni in sé).
Una cosa ho capito, che le relazioni in sé, che poi vuol dire avere rapporti interpersonali in cui ci sia riconoscimento e apprezzamento per la persona anche in virtù di una maggior conoscenza, e quindi anche uno stare bene insieme, sono possibili se vengono cercate e costruite.
Per molto tempo, invece, ho creduto che le relazioni potessero nascere sulla base di quello che dicevo, della mia coerenza con quello che dicevo e della mia disposizione per la mediazione, ritenendo che il consenso e la condivisione di modi di pensare potessero essere condizioni per la nascita di relazioni.
Il desiderio che da una comune pratica politica o umanitaria, in cui ci fosse anche la possibilità di comunicare motivazione, concezione e modi della propria azione politica, potessero anche nascere relazioni che non fossero solo di “lavoro”, ma anche di amicizia, si è rivelato un’illusione.
In verità devo riconoscere che sono nate anche delle conoscenze, qualche volta anche simpatiche, che consentono comunque, quando ci si incontra, di scambiare qualche parola non formale o banale.
La fragilità delle relazioni che si vivono con questo tipo di coinvolgimento l’ho individuata nell’uso strumentale delle relazioni, per cui passato il tempo dell’utilizzo si sono dissolte, e nella incapacità o impossibilità di andare più a fondo nella comunicazione di sé.
Un altro grado di maggiore coinvolgimento si ha nelle situazioni in cui tra le persone c’è una dichiarata condivisione di senso, la disponibilità a una comunicazione aperta alla conoscenza di sé e dell’altro/a, il riconoscimento del proprio e altrui desiderio, l’individuazione dei progetti personali per realizzarlo, la possibilità anche di intraprendere qualche iniziativa comune per mettere al mondo qualcosa di sé e delle proprie relazioni, e da ultimo, non poco importante, momenti di piacevole convivialità.
Questo tipo di coinvolgimento è avvenuto nel lavoro di ricerca su Persona e Comunità svolto a Casanova
Staffora (PV), dove ho conosciuto Adriana e Gianni, si è svolto e si sta svolgendo ancora con qualcuno/a in Identità e Differenza dove ci sono ancora Adriana e Gianni oltre naturalmente a voi e a qualche altra/o.
Posso elencare in questa categoria, che ho definito di maggior coinvolgimento, anche donne e uomini della Libreria delle Donne, di MaschilePlurale, delle Città Vicine, della Rete della Differenza? Penso proprio di sì.
La fragilità in questo tipo di relazioni dove sta?
Sicuramente anche qui incide il rallentarsi della frequentazione, dovuta anche a lontananza fisica, ma soprattutto all’aprirsi di altri interessi, altri campi di ricerca. Comunque, in forza della precedente ricerca comune di qualità, non si diventa mai del tutto estranei; quando capita di incontrarsi, si riesce ancora a riannodare i capi del filo rosso che ci aveva tenuti uniti, a meno che non ci sia stata una sorta di sconfessione del cammino svolto insieme, non necessariamente dichiarata formalmente ma manifestata attraverso determinati comportamenti.
Mi preme soffermarmi sul quando e perché si rompe qualcosa nella relazione proprio tra coloro che per diverso tempo hanno fatto un percorso, che non è stato formalmente sconfessato, in cui c’erano proprio quelle qualità che indicavo come costitutive di un forte coinvolgimento.
Che ci sia alla base un desiderio di potere, di protagonismo, di un riconoscimento che non è come quello che ci si aspettava? Quindi anche un po’ di invidia e gelosia? Non ammissione dei propri limiti, quindi poca lealtà con se stessi? Incoerenze e scorrettezze? Insoddisfazione cosmica che non si riesce a superare?
Alcune riflessioni
Se mi riferisco all’ambito della realtà e dell’esperienza, nelle relazioni incontro difficoltà ad essere come vorrei, perché è sempre in agguato il timore di non essere accettato e di non saper accettare o reggere la comunicazione dell’altro/a.
Timore di non essere accettato, sia quando confondo un eventuale rifiuto delle mie posizioni con un rifiuto della mia persona, sia quando, pensando che l’altro si attenda che io mi ponga come lui vorrebbe, tendo a limitarmi (accondiscendere?) per non compromettere la comunicazione e forse di conseguenza anche la relazione.
Timore di non sapere accettare la comunicazione dell’altro, quando quella comunicazione in qualche modo mi potrebbe provocare e una mia eventuale reazione potrebbe anche in questo caso compromettere la relazione.
Che tutto questo voglia dire timore del conflitto?
Se faccio riferimento all’ambito delle esigenze, il mio desiderio è di poter vivere relazioni in cui sentirmi libero di essere me stesso nell’accettazione della stessa libertà dell’altro, fatto salvo che non ci si voglia distruggere, ma si voglia comunicare per stare bene insieme. Ritengo che una relazione è di alta qualità quando le persone in essa coinvolte riescono a scambiarsi il meglio di sé senza rinunciare a niente di ciò a cui si dà valore, e ricevendo quello che anche per l’altro è il meglio e ha valore. Il meglio di sé, che si dà e si riceve tra le persone che vivono questa relazione, è la fedeltà alla propria coscienza e la comunicazione di come si riesce e si vuole continuare a essere fedeli.
Questa relazione che si fonda sul desiderio è esigente e, come tale, può essere instaurata a questo livello di qualità con poche persone perché richiede tempo sia per costruirla sia per mantenerla.
Ho indicato due estremi, quello della realtà e quello del desiderio. Ma, il più delle volte, le relazioni appaiono complesse: situazioni e momenti che si avvicinano alle attese dell’esigenza si alternano a situazioni e momenti in cui molto forti sono i condizionamenti che limitano la comunicazione.
Una particolare fragilità si incontra nelle relazioni in cui è in gioco una forte componente affettiva, perché in alcuni casi l’affetto può costituire una forza che condiziona la libertà: si teme di perdere l’affetto. Questo succede quando la componente affettiva, invece di fondarsi su una profonda concordanza di coscienza che garantisce la libertà, si basa su una condivisione di emozioni, sentimenti, interessi, obiettivi per cui, se in nome della propria libertà ci si allontana da quella base, si teme che venga a mancare anche l’affetto. Per non perdere l’affetto si è disposti a rinunciare alla libertà!?